mercoledì 19 gennaio 2011

SE STARAI CON ME TI PARLERO’ DI ME - Gesù racconta dalla croce - II parte

Il Getsemani

Era già notte fonda quando mi riebbi e vol­li uscire fuori.

Sentivo in quel momento tutto l'amore per tutti gli uomini dei quali il Padre mio mi ave­va reso fratello, ma anche tutto il peso dei lo­ro peccati venirmi addosso. Sostai un attimo sull'uscio, guardai l'im­mensità oscura e mi incamminai andando in­contro a quel buio nel quale l'anima mia si rispecchiava perfettamente. Mi incamminai co­me al solito verso l'Orto degli Ulivi, i miei apo­stoli mi seguirono a gruppetti. C'era un vento gelido ed un silenzio mortale. Si sentiva solo il rumore dei nostri passi sull'acciottolato. Nel cielo brillavano le stelle e la luna piena rende­va gli alberi degli ulivi argentati. Era uno spet­tacolo di straordinaria bellezza. Gli apostoli, lontani dal pensare che questa era l'ultima notte che avrebbero passato con me, si sdraiarono per terra e coprendosi con i loro mantelli si addormentarono.

 Li guardai e mi accorsi di soffrire anche per loro, mi erano stati amici, avevano rinunciato a tutto per seguirmi; mi ap­parivano come bambini che certi della custo­dia della madre si addormentano con abbandono. Li amai come non mai in quel mo­mento, avrei voluto accarezzarli e stringerli al mio petto ad uno ad uno, proprio come una madre fa con i suoi bambini.

Parlai loro con il cuore dicendo: "Amici miei, per causa mia vi perseguiteranno e vi metteranno a morte, devo mandarvi come pe­core in mezzo ai lupi; mi addolora, ma voi siete stati scelti quale eco per diffondere il gorgheg­giare della fonte che è lo Spirito di Verità e arriverete così poveri, così indifesi, fino ai con­fini della terra".
Ad un tratto mi accorsi che Pietro, Gia­como, Giovanni, non dormivano. Mi accostai a loro per rivelare il mio stato d'animo.
"L'anima mia è triste fino alla morte", dissi, "tenetemi un pò di compagnia".

La mia voce tremava, la paura di ciò che doveva accadermi mi faceva sudare. Sentii poi un gran bisogno di parlare con il Padre per es­sere rassicuarato da Lui, ma nel contempo sen­tivo l'esigenza di una presenza fisica e così, dilaniato fino allo spasimo, andavo e tornavo. Ad un tratto mi mancarono le forze e caddi in ginocchio e alzati gli occhi al cielo rividi la luna, le stelle sempre lì fedeli fin dalla fuga in Egitto quando illuminarono il sentiero a Ma­ria mia madre e a Giuseppe, compagne a me per tanti notti ed ora testimoni di un amore di­stillato goccia a goccia che trasudava dalla mia fronte e di colore scarlatto. "Padre, Padre!", ripetevo, "allontana da me questo calice!'

Ad un tratto rientrai in me, rividi il Pa­dre e alla di lui presenza mi sentii ricolmo di tutto il sudiciume che gli uomini passati pre­senti e futuri avevano e avrebbero racimolato coi loro peccati. La sfavillante presenza del Pa­dre rese la mia anima consapevole, non solo dell'oltraggio fatto dall'uomo a Colui che è l'a­more per essenza, ma anche di che cos'è l'uo­mo senza il suo Dio d'amore. Mi guardai così come apparivo al Padre e mi vidi un obbro­brio. Lui per consolarmi mandò uno dei suoi angeli che mi diede il sapore del mio cielo. "Amo tutto ciò che tu hai fatto, Padre mio e mio Dio", dissi, 'ma più ancora amo le tue creature che hai fatte ad immagine di me. Vo­glio restituirle al tuo amore. Voglio far riemer­gere in loro quel soffio di vita che sei tu, togliendo ogni ludibrio alla primordiale bel­lezza. E se per far ciò devo bere il calice fino alla feccia, sono pronto Padre mio' .

La cattura ed il processo

Mi rialzai cercando di riunire tutte le mie forze e mi portai dove erano i miei apostoli.
Li feci alzare e andai incontro al bacio di Giu­da. Così i soldati arrivati con gran chiasso mi presero e mi condussero via incatenato come un assassino.

Dovevo attendere lo spuntare del sole, del sole di questo giorno, perchè il Sinedrio si riu­nisse e quindi passai le rimanenti ore di que­sta ultima notte terrena in carcere, in compagnia dei custodi che bendatomi mi per­cuotevano e si prendevano gioco di me.

In quei momenti il mio pensiero improv­visamente andò a Giuda e lo vidi penzolare da un albero, con una corda al collo che smorzò l'ultimo grido dettato dalla disperazione e dal rimorso. Il figlio dell'orgoglio non volle am­mettere di avere sbagliato, di aver bisogno di perdono.

Lui, facendo sempre affidamento sulla sua intelligenza, si mise su un piano di autosuffi­cienza.- Doveva chiedere a me il perdono e non seppe farlo. Per orgoglio non seppe neanche perdonarsi. Se avesse atteso avrebbe visto che per dare questo perdono agli uomini, io morivo.

Finalmente spuntò l'alba di questo venerdì sette aprile e mi ritrovai nella sala del palazzo dove il Sinedrio, presieduto da Caifa, si era appena riunito.

Mi interrogarono: "Sei tu il Cristo?" "Io lo sono" , risposi con voce limpida e pacata.

Così mi giudicarono colpevole di bestem­mia e sentenziarono la condanna a morte. Mon era una condanna ufficiale, questa poteva in­fliggerla solo Pilato. Così fui mandato da lui guardato a vista dai soldati.

Faceva freddo e nell'atrio i servi dei som­mi sacerdoti avevano acceso un fuoco per scal­darsi. Ad un tratto sentii la voce di Pietro dire: "Non lo conosco".

Mi girai e lo vidi con gli occhi sgranati, si guardava attorno. Lo fissai intensamente negli occhi e in quello sguardo Pietro ritrovò la predizione che gli avevo fatto giorni prima: "Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte".

Al contrario di Giuda, avrebbe voluto in quello stesso istante buttarmi le braccia al collo e dirmi: "Perdonami, Maestro", ma non po­tè farlo per paura che lo arrestassero, quindi leggendo nel mio sguardo il perdono uscì fuori e pianse amaramente.

Al Pretorio

Verso le sei del mattino fui condotto dal procuratore Ponzio Pilato che però, saputo che ero Galileo, mi mandò a sua volta da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande.

Lì non risposi ad alcuna domanda. Non ne valeva la pena. Erode era un uomo molto frivolo ed era interessato a me solo per curiosità. Il mio silenzio lo fece montare su tutte le furie e dopo avermi violentemente insulta­to mi rivestì, schernendomi, di un manto di porpora e mi rimandò da Pilato. Questi era un uomo di potere, datogli in prestito da Tiberio il quale lo avrebbe destituito da lì a poco, ed aveva un carattere pusillamine. Pur riconoscen­domi innocente, non ebbe il coraggio di pro­clamarlo per paura della folla, ma non ebbe neanche il coraggio di proclamarmi colpe­vole.

"Sei tu re dei Giudei?", mi chiese.

"Il mio regno non è di questo mondo", risposi, "ma è vero, sono re, ma nel senso ul­traterreno, così come è scritto nei libri sacri".

La mia voce era molto pacata e da questo Pilato si rese conto che non aveva a che fare con un agitatore politico.

Continuai: "Si, sono re, per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità"

La parola "verità" fece presa nella men­te di Pilato. Pensò fossi uno dei soliti filosofi che si illudevano di trasformare il mondo con il pensiero anzicchè con la violenza. Così re­plicò: "Ma cos'è la Verità?", ma non aveva nessuna voglia di saperlo, perchè subito uscì fuori verso i Giudei offrendo loro la possibi­lità di rendermi libero secondo l'usanza di ri­lasciare per la Pasqua un prigioniero. E così mi barattarono con Barabba, un ladro, finito in carcere per omicidio.

Pilato, lavatosi le mani dopo avermi fatto flagellare, mi ripresentò alla folla urlante. I suoi occhi mi seguirono mentre camminavo giù nel cortile del Pretorio.

Così fui ridotto ad un'intera piaga. Secondo la legge di Mosè avrebbero do­vuto darmi quaranta colpi, anzi solitamente per rimanere dentro la legge ne davano uno in me­no, con una frusta formata con corde di cuoio che avevano alle estremità sfere di metallo e punte ad uncino, chiamata "flagrum". Ma a me ne diedero molti di più e non contenti di ciò mi posero sul capo un serto di spine rica­vato da sterpi di pimpinella che i soldati ave­vano messi da parte per accendere il fuoco durante le veglie. Colpendo con un bastone procurarono di farmela aderire attorno alla te­sta, soprattutto nella parte frontale. Così, quale cencio umano, Pilato ordinò che fossi condotto innanzi al popolo.

Per un attimo a tale vista la folla rimase smarrita e come uno scemare di tempesta ci fù un grande silenzio. Cercai con lo sguardo un volto amico, qualcuno che pur non poten­domi salvare dalla morte mi dicesse: "Gesù, figlio di Maria e del Dio di Abramo, ti amo e credo in te", e invece udii solo la voce di Pilato: "Ecco, questo è l'uomo, in lui non ho trovato nessuna colpa".

Ero sfinito, per farmi coraggio ripensai a tutti gli uomini amati dal Padre, ritornare a Lui, a tutti questi fratelli legati a me dal patto della nuova ed eterna alleanza. Per questo in fondo sono venuto: perchè il mio corpo si facesse via attraverso la quale poter tornare a casa.

Ad un tratto mi sentii osservato. Una don­na avvolta in uno scialle scuro lasciava intrav­vedere due grandi occhi che il pianto aveva reso simili a due laghi dalle acque profonde e cristalline.

Nessuno la riconobbe, ma io sì. Era Ma­ria, quella soprannominata "La peccatrice". "Signore, so che muori per i miei pecca­ti", mi diceva il suo cuore, "ma prima di te nessuno mi aveva amata per amore. D'ora in poi non potrò più vivere se non per amore, l'A­more che sei tu" .

La guardai e risposi col mio cuore al suo messaggio: "Guardami donna, muoio per da­re a tutti gli uomini ciò che ho dato a te: il per­dono e la vita eterna; consolati, il tuo fiume d'amore d'ora in poi troverà il suo letto per sfociare infine nel grande mare della mia Mi­sericordia".

Le urla dei sommi Sacerdoti mi scosse­ro: "Crocifiggilo, crocifiggilo", e da lì a po­co tutta la folla gridò così.

I soldati si avvicinarono e Pilato mi con­segnò a loro. Mi legarono il patibolo sulle spal­le, mi appesero al collo il cartello che indicava il motivo della condanna e mi spinsero insie­me ad altri due condannati per le vie della cit­tà in direzione del Calvario.

La via della Croce

Due soldati camminavano davanti a me e due dietro. Tutt' attorno c'era il popolo che pre­so dalla curiosità voleva godersi lo spettacolo fino in fondo.

Dopo aver percorso un breve tragitto mi accasciai a terra sotto il peso dell'asse che portavo sopra le spalle. I soldati che stavano die­tro di me m'aiutarono a rialzarmi con veemen­za e mi rimisero in piedi non curanti dei dolori lancinanti che mi procurava il legno sulle nu­de piaghe. Il sangue mi grondava da tutte le parti del corpo.

Pensai a mia madre e provai una fitta al cuore quando mi accorsi che mi veniva innanzi. Mi seguiva silenziosa, e il suo volto, per quanto addolorato, sprigionava una luce d'amore dalla quale mi sentii abbracciare.

"Madre, sii benedetta fra tutte le donne, perché hai aderito sempre alla volontà del Pa­dre mio" .

Mi trascinavo a stento e i soldati, veden­do che non riuscivo più a stare in piedi, fer­marono un uomo, un certo Simone di Cirene. Faceva il contadino, tornava stanco dal lavo­ro e per qualche denaro accettò di aiutarmi a portare l'asse.

Una donna si fece innanzi e con grande pietà mi asciugò il volto, mi sentii refrigerato e, per ricompensare la sua carità, le lasciai im­presso il mio volto nel panno. Altre donne mi consolavano durante il cammino con pianti e gemiti e, malgrado fossi allo stremo delle for­ze, le avvertii delle future sofferenze che si sa­rebbero abbattute su di loro e sui loro figli.

Il Calvario dista dal Pretorio meno di un chilometro. Così, giunti sul monte con la ve­locità di chi vuole sbarazzarsi della prova del delitto, buttato l'asse per terra, m'hanno spo­gliato completamente e disteso supino.

Un carnefice m'ha inchiodato i polsi al pa­tibolo e legata la fune al petto.
Altri due m'hanno innalzato sullo stipite già pronto e infisso al terreno.
Fermati i due assi della croce hanno al­lentato la fune e il mio corpo, scivolando ver­so il basso, s'è assestato con un orribile strattone. Poi hanno inchiodato anche i miei piedi.

Le immagini dei ricordi si esauriscono. C'è solo da attendere che tutto si compia. Ab­bassando lo sguardo rivedo mia madre soste­nuta dal braccio di Maria Maddalena e Maria di Cleofa. C'è anche Giovanni, lui solo fra tutti gli apostoli. Li affido l'uno all'altra, perché l'uno dell’altra avranno bisogno.

Ad un tratto sento una voce che mi dice: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso ed an­che noi". È uno dei due malfattori che sono crocifissi con me.

L'altro però lo rimprovera, dicendogli: "Noi moriamo per le nostre iniquità ed è giu­sto, ma lui che male ha fatto?" e poi rivolto a me dice: "Gesù, quando sarai arrivato nel tuo regno, ricordati di me".

Cosa sa lui di me e del mio regno? Ne avrà sentito parlare fra la folla solo durante il tra­gitto dal Pretorio al monte dove siamo croci­fissi, ma la predisposizione alla verità lo ha illuminato dentro, così mi percepisce per quello che sono, Re del Regno dei Cieli, e compren­de pure in così poco tempo che appartenere al mio regno è solo una questione di amore. Mi volto verso di lui e gli dico: "Oggi ti porterò con me in Paradiso".

Nello stesso istante il sole si eclissa, il cie­lo diventa buio, l'aria si fa molto calda, irre­spirabile, è l'afa che precede i temporali. Si fa un grande silenzio. In questo momento ho la percezione di essere uno di voi, ho appeso sì il peccato alla croce, ma ancora non basta. Sono gli ultimi momenti della mia vita. In que­st'attimo mi vedo tutto uomo ed il Padre mio non più dentro di me, ma di fronte a me, tutto Dio nella meraviglia della sua perfezione; ho un grido: "Dio mio, Dio mio perchè mi hai abbandonato?" .

Lo chiamo "Dio mio" perchè proprio ho bisogno di gridarla questa verità. Io uomo fatto peccato e lui il mio Dio. Così imploro il per­dono per i miei crocifissori e per tutti gli uomini, mi porgo a lui ed in nome di tutti gli uo­mini lo richiamo: "Padre", gli dico, "ades­so che tutto è compiuto, depongo nelle tue mani il mio spirito, torniamo a casa perché ormai i miei fratelli conoscono la via e potranno, se lo vorranno, abitare nelle stanze che tu, o Pa­dre, hai loro preparato".

Il Padre mi apre il suo seno e mi dice: "Vieni servo buono e fedele, vieni fratello dei fratelli, vieni amore mio incarnato".

Questa è l'agonia. Torno a guardare la fol­la, questa volta oppressa, impaurita per l'at­mosfera che si è creata attorno. Al di là di ogni ragione la natura creata per amare si ribella nel vedere l'amore crocifisso, ma al di là di ogni ragione, proprio perché crocifisso, l'a­more può aprirsi all'infinito poiché non lo fa­rà più con le braccia, ma con il cuore il quale e il solo che amando si dilata all'infinito.

Sono le ore quindici, emetto l'ultimo re­spiro. Muoio. Ma risorgerò, non vi lascio orfani, vi manderò lo Spirito Consolatore che vi insegnerà ad amare come Io vi ho amati.

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