domenica 16 gennaio 2011

SE STARAI CON ME TI PARLERO’ DI ME - Gesù racconta dalla croce

E il venerdì sette aprile, ore dodici, del­l'anno trenta e mi ritrovo appeso come un cen­cio su una croce, trattato come un brigante, anzi condannato a morte al posto di un brigante.


M'è davanti la mia tenerissima madre, rit­ta, ai piedi di questo palo al quale m'hanno in­chiodato. Sembra un soldato valoroso che, al termine di una grande battaglia vinta, mostra fiero le ferite sanguinanti del corpo al coman­dante per dirgli: "Sono ridotto così, ma non preoccuparti, abbiamo vinto".

"Sì madre, puo dirlo forte, abbiamo vin­to. Io torno al Padre e nel Padre troverò la sua compiacenza per te e continuerò ad amarti ed attenderti fintanto che gli Angeli santi ti ricon­durranno a me nella santa Dimora".

Nel suo cuore rivedo la piccola casa di Na­zareth. Il mio caro Giuseppe che non dimen­ticò mai, quando mi teneva fra le braccia, che sotto quella tenera carne di bimbo palpitava l'essenza del Dio dei suoi Padri. L'espressio­ne si riferisce al verbo incarnato. Adorò in me il Dio creato e celato, fu il primo adoratore dell'Eucarestia. Guardò e custodì mia madre come un tempio santo, lasciandosi inebriare dal suo profumo verginale e consacrante.

I primi tempi

Mi rivedo adulto a trent'anni, quando per l'ultima volta lasciai quella casa che, come il seno di mia madre, mi aveva custodito, per an­dare incontro agli uomini.

In un solo attimo mi si ripresentano tutte le tappe degli ultimi tre anni della mia vita. L'incontro con Giovanni il Battista... il suo cuore sincero, la sua umiltà profonda mi fe­cero un gran bene dopo il distacco dalla casa di Nazareth.

I quaranta giorni nel deserto della valle del Giordano in una lunga estasi all'ascolto inti­mo e divino del progetto del Padre per la rap­pacificazione del suo amore con il cuore degli uomini. E poi l'incontro con i primi due apo­stoli: Giovanni ed Andrea, che con semplici­tà credettero che ero il Messia. E la faccia corrucciata di Pietro che non seppe resistere suo malgrado al mio sguardo e mi seguì. E tutti gli altri.

Rividi il pozzo di Giacobbe sul monte Ga­rizim, dove incontrai un'umile peccatrice sa­maritana, che pur non comprendendo il mio discorso lo accolse e cambiò vita, solo perchè le diedi fiducia, chiamandola col titolo onorifico di donna, pieno di stima ed affetto ri­verente.

Mi tornano alla mente tutti i miracoli che ho fatto e tutti i miracolati ai quali ho ridato vita e salute pur sapendo che oggi li avrei ri­visti nel vigore delle loro forze ai piedi di que­sto monte a gridare "Crocifiggilo".

E Maria, la prostituta che entra a casa di Simone confondendosi con i servi per cospar­gere i miei piedi con prezioso profumo misto alle sue calde lacrime e la mia gioia nell'am­ministrarle il perdono: "Donna ti sono perdo­nati i tuoi peccati, va' in pace''.

E gli Scribi e i Farisei, sempre pronti lì a volermi far fuori per non scomodarsi a rive­dere il proprio interiore. Li rivedo adesso in mezzo a questa enorme folla che compiaciuta si gode uno spettacolo gratuito in questo gior­no, grazie proprio alla pervicacia di quei go­vernatori e conservatori della legge di Mosè, legge interpretata e non amata.

Rivedo Pietro, la sua fede, il suo "ascol­tare" i miei discorsi senza tanti ragionamen­ti. Mi aveva seguito perchè gli ero simpatico e mi voleva bene con l'affetto di un padre. Per me aveva lasciato moglie e figlia, con grande dolore, ma senza mai pentirsi. Mi amava più di ogni cosa al mondo, più di se stesso. Fu lui che con grande impeto mi gridò: "Sei tu il Messia, il figlio del Dio vivente". Verità ri­velatagli, per il suo cuore libero e sincero, dal Padre mio. E fu in quel momento, che con pro­fonda riconoscenza sentii che potevo fidarmi di lui, gli diedi il potere di sciogliere e di le­gare qualsiasi cosa in terra confermandogli che così sarebbe stato anche nei cieli, insomma gli diedi le chiavi del Regno.

Esattamente otto giorno dopo aver annun­ciato di essere il Messia, invitai Pietro, Gia­como e Giovanni sul monte Tabor. Arrivammo lì molto stanchi verso sera. Il sole radente il­luminava l'orizzonte. Sentii un gran bisogno di allontanarmi da loro per unirmi intimamente al Padre mio, sotto la volta di un cielo intes­suto di stelle e volli dare loro un segno della beatitudine Trinitaria. Con un gran bagliore, meglio che se fosse stato mezzogiorno, il mio corpo apparve loro condensato di una luce vi­vissima, riflessa dalla presenza del Padre mio. Con me erano Mosè ed Elia, rappresentanti della legge e della profezia. E Pietro, sempre lui così irruento e spontaneo, mi fece la pro­posta di voler fare tre tende!

E poi la festa dei Tabernacoli, quella che ricordava la dimora degli antichi Ebrei sotto le tende nel deserto. Ero lì anch'io ed era l'an­no ventinove. Seduto insieme con i miei apo­stoli assistevo alla grandiosa fiaccolata che concludeva gli otto giorni di celeIrazioni. Am­miravo le danze che facevano gareggiando nel saltellare il più a lungo possibile con in mano la fiaccola accesa. Ero affascinato da quella allegria popolare e guardando le grandi lampade appese agli altissimi candelabri pensavo, e confidai il mio pensiero agli Apostoli: "Io sono la vera luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà sempre la lu­ce della vita eterna".

Ad un tratto si sentì un gran chiasso, al­cuni Farisei trascinavano una donna che ave­vano sorpresa mentre giaceva con un uomo che non era suo marito. Volevano lapidarla. Ma ciò che più mi fece male fu il ragionamento dei Farisei. Non erano lì per osservare con zelo la legge, come poteva apparire, ma l'avevano portata apposta per mettere me in difficoltà. Loro facevano presa sul fatto che io avevo pre­dicato l'amore ed il perdono cercando di spie­gare alla gente che il Padre mio mi aveva mandato solo per dare speranza ed amore... "Amatevi a vicenda, perdonate settanta volte sette, perché il Padre ha questi sentimenti nei vostri confronti e voi dovete averli nei con­fronti degli altri".

Loro davano per scontato che io avrei perdonato e amato quella donna e quindi avrebbero potuto condannarmi a morte per non aver osservato la legge di Mosè. D'al­tronde se anch'io fossi stato dalla loro parte mi avrebbero presentato al popolo come un bu­giardo che dopo aver predicato l'amore ed il perdono, presente l'occasione di praticarlo, mi tiravo indietro per paura, comportandomi di­versamente da come avevo predicato. Tutto questo lessi nei loro cuori e nelle loro menti, mentre seduto per terra col dito tracciavo dei segni nella sabbia. Insistevano nel chiedermi un parere e così al di là di ogni legge delibe­rai che chi non avesse peccato poteva comin­ciare a tirare la prima pietra.

Con questo mio dire desiderai rendere chiaro che nessun uo­mo può appellarsi a nessuna legge per giudi­care un altro uomo, poichè ci sono peccati che possono essere scoperti, come questo, ma ci sono molti altri peccati avvolti dalle tenebre della furbizia che l'uomo riesce perfettamente a nascondere. Se ne andarono lasciandomi quella donna raggomitolata per terra, piena di paura e stupore. In quel momento mi alzai e fui pienamente felice di poterle dare una ma­no rassicurante e con tutto l'affetto del cuore le dissi: "Donna va' in pace. E d'ora in poi non peccare più". Ella mi guardò con gli oc­chi pieni di lacrime e di gratitudine e nel suo sguardo lessi: "Grazie, maestro buono, il tuo amore mi ha guarita".


La Parola: Verità e Misericordia

Il mio coraggio nel testimoniare la verità mi attirò molte simpatie per cui molti chiese­ro di diventare miei discepoli. Ne scelsi set­tantadue e li mandai come i miei dodici a predicare.

Solo pochi mesi e la mia vita terrena si sarebbe conclusa. Così in quel tempo che mi rimaneva non parlai altro che dell'amore. Vo­levo arrivare a far vibrare il cuore degli uo­mini e di tutti gli uomini, anche di quelli che pensavano di essere vittime indiscutibili dei propri vizi e così raccontai la parabola del Fi­gliol Prodigo. Parlavo spesso in parabole, parabole dell'amore. Era una pedagogia adatta a quegli uomini semplici perché imparassero a mente i miei insegnamenti. Un padre, due figli con caratteri diversi. L'uno attratto dai piaceri della vita, l'altro ligio al dovere e per questo sicuro di dovere ricevere la lode dal pa­dre e deluso perché i fatti si svolsero diver­samente.

"Prendo tutto ciò che mi spetta", disse il primo al padre, "voglio godermi la vita, com­prarmi tutti i piaceri che il mondo mi offre" .

Il padre rispetta la libertà del figlio, gli concede il suo e lascia col cuore triste che var­chi la porta di casa, chissà forse per non rive­derlo più. L'amore lascia sempre libero l'amato di amare oppure no, questa è la radi­ce dell'amore stesso. Ma quel figlio, fatta l'e­sperienza della propria fragilità, si ritroverà solo ed affamato e dopo aver sperperato tut­to, sente e comprende che l'amore di suo padre, rimasto immutato nell'infinita Mi­sericordia, lo attende sempre. E così và e tro­va il padre suo ad attenderlo, senza rinfac­ciargli nulla, felice solo di poterlo riab­bracciare.

Così scorrono nella mente mia le imma­gini degli ultimi giorni della mia vita terrena, mentre il sangue gronda dalle mie ferite ed i dolori mi penetrano le ossa da non poterne più. Mi accorgo che ricordare mi fa bene, perché lo strazio delle mie carni trova in questa me­moria una risposta.

Ho amato tutti gli uomini miei fratelli e voglio dimostrare loro che continuo ad amar­li e li amerò sempre e darò tutto me stesso poi­che di più non posso.

A Gerusalemme

Ed ecco riprendo a ricordare il mio ingres­so trionfale nella Città Santa.

Montai su un asinello a circa un chilome­tro dal tempio, operando guarigioni tra le gri­da gioiose dei fanciulli. La folla non riuscì più a contenere l'entusiasmo; pochi giorni prima avevo risuscitato Lazzaro e questo era stato per loro il miracolo più strepitoso, quindi getta­rono i loro mantelli sotto i piedi della caval­catura e tagliati rami d'ulivo, li agitavano gridando: "Evviva, evviva, osanna al Figlio di Davide"!

Passato il torrente Cedron, alzai lo sguar­do verso il tempio candido di marmi e sfavil­lante di ori ai primi raggi del sole. I miei occhi si riempirono di lacrime; pensai che di quel tempio così maestoso non sarebbe rimasta pie­tra su pietra che non fosse distrutta. Gerusa­lemme sarebbe stata rasa al suolo e dei suoi abitanti chi ucciso e chi condotto in schiavitù. Entrai, accompagnato dal sempre crescente en­tusiasmo della folla, nell'atrio del tempio e mi vennero incontro alcuni Greci e con l'aiuto di Filippo che conosceva il greco seppi che vo­levano conversare con me. Parlai in perifrasi anche con loro. Raccontai che se il granello di frumento caduto in terra non muore, non porta frutto; come a dire: "Proprio quando mi uccideranno comincerò a vivere nei vostri cuo­ri". E proprio il Padre mio mi rese testimo­nianza, come durante il battesimo e sul Monte Tabor: si udì un rumore come di tuono e e una voce che scandiva queste parole: "Ho glori­ficato il tuo nome".

Ma nè i miei interlocutori, nè il popolo compresero. Così mentre loro continuavano ad inneggiare io ridiscesi verso il torrente Cedron e, tra i sentieri dell'Orto degli Ulivi, mi di­ressi a Betania ove andai a trovare il mio ami­co Lazzaro e passai la notte.

Verso la Pasqua

Il dì successivo mi alzai di buon mattino e mi recai regolarmente nel tempio a predicare. Era il lunedì tre aprile dell'anno trenta. I Farisei si erano nel frattempo organizzati escogitando ancora una volta di rendermi ri­dicolo agli occhi del popolo.

Mi sottoposero dunque un problema di tas­se: "E giusto o no pagarle?"

Il tranello era ben progettato, c'era Cesa­re di mezzo e quindi se avessi detto "si" avrei avuto il popolo contro che di fronte alle tasse versate ad un governatore tiranno e straniero pensava fosse meglio non pagare; se avessi det­to "no" a quel punto sarebbero intervenute le guardie e mi avrebbero eliminato per oltrag­gio al grande Cesare ... Ipocriti! Ciechi!

Mi feci portare una moneta del tributo con 1'effige di Cesare e spiegai loro che come c'è un dovere da compiere in una società civile al quale non si può e non ci si deve sottrarre, così c'è un dovere morale impresso nella coscien­za di ogni uomo al quale si deve soddisfare. Ma loro non la finirono più con le domande.

L'indomani, martedì quattro aprile, mi sottoposero il problema della risurrezione nel caso di una donna che nell'aldilà si ritrova con sette mariti. A quel punto non ne potei più: "Ipocriti, razza di vipere, i risorti saranno in­corrutibili ed immortali, non avranno l'uso fi­siologico della sessualità, la loro vita materiale scomparirà con le loro ceneri. Saranno uno con me nel Padre, purificati dall'amore sostanzia­le dello Spirito Santo".

Se ne andarono scuotendo il capo con l'a­ria di chi sa di ritornare alla carica. Fui preso da una violenta reazione contro la loro ipocri­sia e gli gridai contro: "Guai a voi, perchè chiudete il Regno dei Cieli in faccia agli uo­mini. Non solo voi non vi entrate, ma fate di tutto perchè gli altri non vi entrino. Ipocriti ciechi che pretendete di fare agli altri da guida! Serpenti, razza di vipere, sepolcri imbianca­ti! Non illudetevi di poter sfuggire al fuoco del­la Geenna". Dopo questo sfogo mi sentii sfinito e mi rifugiai all'interno del tempio.

Il mio animo si acquietò quando vidi una vecchietta mettere nella cassetta dell'elemosine pochi spiccioli. Mi rivolsi agli Apostoli facen­do loro notare quanto sia gradita l'offerta presa dal proprio necessario, molto di più di quella scrosciante che i ricconi fanno cadere dall'alto.


Il tradimento

Ma proprio a questo ricordo il mio pen­siero va a Giuda.

Poveretto, la mia sfuriata gli aveva dimo­strato che non possedevo alcun senso politico e si sentì deluso, lui che da me si aspettava la testimonianza di un maestro sapiente di que­sto mondo. Crollarono le sue ultime illusioni, così prese la decisione di aiutare i Farisei a mettermi a tacere. Ormai non gli interessavo più. Per lui ero solo un pazzo, un esaltato, e nient'altro. Così quella stessa sera mentre mi avviavo con gli altri apostoli verso l'Orto de­gli Ulivi, Giuda rimase in città per prendere i primi contatti con i capi dei Sacerdoti, stabi­lendo l'incontro per l'indomani sera. Quanta tristezza nel mio cuore! Giunti che fummo nel­l'Orto mi sedetti per terra e poggiando la schie­na in un albero di ulivo invitai gli apostoli ad ascoltarmi. "Mancano due giorni alla mia cro­cifissione", spiegai, "e sarà proprio a Pasqua".

Ma loro rimuginavano tutto ciò che era ac­caduto in quegli ultimi giorni ed erano confu­si, quasi non mi ascoltavano. Dopo l'ingresso trionfale a Gerusalemme, pensavano che quel popolo mi amava, mi aveva accettato come Messia e lì, fors'anche per un rifiuto dettato dal grande affetto che avevano per me, ferma­vano il loro pensiero. Preferii non insistere e li lasciai con le loro convinzioni, non me la sentivo di continuare a spiegare cose che non avrebbero mai compreso, tanto li avrebbero vissuti da lì a poco questi giorni, insieme a me e non era il caso di scoraggiarli più di quanto non lo fossero già. Ci appisolammo.

L' indomani mercoledì cinque aprile si ten­ne un ulteriore consiglio in casa di Caifa e si ribadì che bisognava catturarmi con inganno per evitare una sommossa nel popolo.

Cercarono subito di rintracciare Giuda il quale fu ammesso a partècipare al loro conci­liabolo.

Giuda che nella sua vita era stato abitua­to a dare un prezzo a tutto, volle darlo anche a me. E subito, prima ancora di impegnarsi definitivamente a consegnarmi nelle loro ma­ni, chiese: "Quanto mi date?". Gli risposero: "Trenta sicli d'argento".

Questo infatti era il prezzo che la legge ebraica stabiliva quale riscatto in caso che uno schiavo fosse ucciso. Giuda accettò: pensava di investire l'intera somma per acquistare un podere. Questa mercede mi fece molto più ma­le del tradimento in sé. Se mi avesse conse­gnato senza alcuna ricompensa, avrebbe guadagnato probabilmente la stima degli stes­si Farisei i quali avrebbero pensato che, delu­so dall'opinione ideale che lui si era fatta su di me e non valendo che niente ai suoi occhi, poco contava per lui che fossi ucciso o rima­nessi vivo e in ciò, alla richiesta insistente di consegnarmi nelle loro mani, avrebbe potuto aderire come chi, avendo la proposta di disfarsi di ciò che non bisogna, se ne disfà volentieri.

 Ma la degradazione più grande Giuda l'ebbe quando vendette non me, ma il suo ideale de­luso per trenta sicli d'argento. Riflettei molto su questo e pensai che il cuore dell'uomo chiuso alla grazia del suo Dio, non saprà far altro che vendere, comprare, perire. Lo vidi torna­re a sedere in mezzo agli altri apostoli. Rima­se molto male quando sentì che avevo dato a Pietro e Giovanni il compito di organizzare la cena per la Pasqua, perché a lui urgeva sape­re dove saremmo andati.

Così mi rivolsi ai due apostoli e parlai in modo molto enigmatico per far comprendere a Giuda che ero al corrente di suoi piani, per invitarlo a riflettere, ma non volle, pensando forse che ormai era troppo tardi per tornare indietro, dimostrando così di non avere fidu­cia nel mio amore, nel mio perdono.

L'ultima cena

La cena pasquale si consumò al primo pia­no vicino la casa di Caifa. Era la sera del gio­vedì sei aprile e seguìto dai miei apostoli mi recai nel luogo stabilito. Giuda assunse una espressione molto preoccupata vedendoci in­camminare proprio verso la casa di Caifa, sem­brava infatti che io lo conducessi a compiere il suo misfatto quanto prima possible. Si ras­sicurò quando, appena seduto a tavola dissi sor­ridendo: "Ho desiderato tanto mangiare questa Pasqua con voi, sapete, questa è l'ultima volta".

Il clima, almeno apparentemente, era ab­bastanza sereno, favorito anche dalle carni fu­manti, dalle ricche posate, dai vini pregiati. Gli apostoli non raccolsero ancora una volta il senso delle mie parole, loro pensavano che fosse terminato il periodo in cui avevo voluto vivere nascosto e che subentrava un'era nuo­va, l'era in cui avrei rivelato con potenza di essere il Messia, e così avrebbero finalmente potuto dimostrare a tutti che loro erano stati quei fortunati che l'avevano incontrato per pri­mo. Per questo cominciarono a discutere sulle cariche che dovevano dividersi. Interruppi il loro dire e dissi: "Colui che serve è il mag­giore tra di voi", mi cinsi al fianco un' asciu­gamano e cominciai a lavar loro i piedi.

Non appena gli fui innanzi, Pietro si sco­stò con veemenza dicendomi che mai si sarebbe sottoposto a questo per la grande stima che ave­va di me. Ma quando mi sentì dire che non avrebbe avuto parte con me se non mi avesse lasciato fare questo servizio, l'impetuoso Pietro quasi mi gridò: "Allora non solo i piedi, ma anche le mani ed il capo" .

Tenero dolce Pietro, dal viso scavato dalle lunghe rughe annerite da quel sole bruciante che lo attendeva ogni giorno sul lago, e dal cuore di bimbo che non fece altro che sogna­re per tutta la vita una buona pesca quotidiana per un sicuro pezzo di pane.

Lo guardai e gli dissi: "Chi ha fatto il ba­gno non ha bisogno che di lavarsi i piedi perché e pulito. E voi tutti siete puliti, tranne uno"

Giuda abbassò lo sguardo, era sgomento. E fu sempre Pietro che con foga mi chiese: "Sono forse io, Maestro?"

Lo rassicurai con lo sguardo e osservai uno per uno tutti gli altri Apostoli, li vidi in­terdetti, spauriti, non sapevano capacitarsi per quello che avevo detto: "Uno di voi mi tradirà" .

Intanto Giuda fors'anche per rompere quell'atmosfera gelida che si era creata e che gli pesava sul capo come una candanna, mi si avvicinò e mi chiese con atteggiamento altez­zoso: "Maestro, sono forse io?"

Gli risposi a bassa voce, per non farmi sentire dagli altri: "Tu l'hai detto".
Dopo ciò indietreggò è tornò a sedersi al suo posto.

Sono circa le due del pomeriggio. Devo puntare i piedi sui chiodi e scostare le spalle dal patibolo per prender un pò di respiro; le ferite causate dal flagello hanno aperte le mie carni fino all'osso e il sangue ed il sudore le hanno richiuse malamente, per questo ogni mo­vimento è uno strazio.

Il sole picchia forte e arroventa il legno, ma più ancora i chiodi. Il rumore della folla e ciò che sento gridare mi dilaniano più in pro­fondità.

Loro gridano: "A morte, a morte", ed il mio cuore a loro: "Muore il mio corpo, ma non il mio amore; vi amo e vi amerò per sempre! "

Con lo sguardo, per quello che ormai pos­sono permettermi i grumi di sangue che si so­no formati attorno agli occhi a causa della corona di spine, intravedo Giovanni, l'apostolo che si era donato a me agli albori dei suoi an­ni, e me lo rivedo così, quando posando il ca­po sul mio petto, mi chiese: "Signore chi è colui che ti tradirà?". "È quello al quale da­rò un pezzetto di pane intinto", avevo risposto.

Ecco, la mia mente ora torna in quella stanza con i miei dodici. E mentre tutte le ferite del mio corpo pulsano con dolore imma­ne, il mio cuore si dilata all'infinito per esser­mi fatto Eucarestia.

Questo è un momento d'infinito amore. "Prendete, questo è il mio corpo", dissi loro, spezzando il pane. E poi aggiunsi, por­gendo il calice: "Questo è il mio sangue, che sta per essere versato. Ripetete questo gesto in memoria di me".

Ecco, avevo istituito il Sacramento che mi avrebbe reso eternamente presente in mezzo a loro. "Amici, consumatemi in questo cibo prezioso, insieme, da uomini uniti dalla fede e dall'amore e non temete perché io sono la vostra forza. Ma prima di accostarvi a tale mensa abbiate sempre il cuore mondo, altri­menti fareste come Giuda, al quale diedi un pezzetto di pane intinto nel mio piatto e glielo misi sulla bocca dicendogli: "Quello che de­vi fare fallo presto" .

Egli infatti non disdegnò di prenderlo, ma subito dopo andò via, scomparendo nel buio della notte.

Appena uscì, la cena riprese in un'atmo­sfera di serenità. Non seppero spiegarlo nean­che loro perchè, ma tutti si sentirono il cuore libero e leggero, desiderosi solo di stringersi a me.

Li guardai con grande affetto e mi venne così spontaneo chiamàrli per la prima volta “fi­glioli”, li sentivo parte integrante di me, anzi li sentivo dentro di me, per questo mi donai a loro nell'unica forma in cui potevo donarmi tutto, con il mio corpo ed il mio sangue, la mia anima, la mia divinità, tutto e per sempre.

Così ripresi a parlare: "Figlioli, vedete ... ancora per poco sarò con voi, ma prima di tornare al Padre desidero dirvi che dovete amarvi gli uni gli altri, come io vi ho amati. Vedete come è bello sentirsi in consonanza con tutti i fratelli? È solo questo che desidero testimoniate, perchè solo da questo crederanno che siete stati con me e che io vi ho rivelato l'amore; lo stesso amore per il quale siete sta­ti creati e per il quale tra poco io darò la mia vita. Vedete... nella casa del Padre mio vi so­no molti posti, io vado a prepararvi un posto adatto per ciascuno di voi, affinché possiate un giorno venire anche voi dove sono io".

Tommaso che era il più razionale degli apostoli mi interruppe dicendomi: "Signore, ma se noi non sappiamo dove vai, come pos­siamo conoscere la via!" Gli risposi: "Io so­no la Via, la Verità e la Vita. Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me conoscerete anche il Padre; an­zi vi dico che fin da ora lo conoscete e lo ave­te visto".

E Filippo, dimostrando di avere capito meno degli altri, mi chiese: "Signore, mostraci il Padre e ci basta"

"Oh, Filippo, Filippo come puoi dire: - Mostraci il Padre? -, Io sono nel Padre e il Padre è in me, è lui che sta compiendo in me l'opera di redenzione, credimi, il Padre ed io siamo una cosa sola".

Detto questo sentii una grande nostalgia del Padre. Le parole sgorgavano così tenera­mente dal profondo del mio cuore, che gli apo­stoli, percependo il mio sentimento, esitavano ad interrompermi. Così spontaneamente pre­gai rivolgendomi direttamente a Lui, al Padre mio, dicendogli: "Padre santo, quando io ero con loro li custodivo, adesso è venuto il mo­mento di tornare a te, perciò ti prego custodi­scili tu, perchè abbiano la stessa gloria in me, della mia in te. Ti prego anche per tutti quelli che in me crederanno, affinché tutti siano una sola cosa, come tu Padre sei in me ed io in te".

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