E il venerdì sette aprile, ore dodici, dell'anno trenta e mi ritrovo appeso come un cencio su una croce, trattato come un brigante, anzi condannato a morte al posto di un brigante.
M'è davanti la mia tenerissima madre, ritta, ai piedi di questo palo al quale m'hanno inchiodato. Sembra un soldato valoroso che, al termine di una grande battaglia vinta, mostra fiero le ferite sanguinanti del corpo al comandante per dirgli: "Sono ridotto così, ma non preoccuparti, abbiamo vinto".
"Sì madre, puo dirlo forte, abbiamo vinto. Io torno al Padre e nel Padre troverò la sua compiacenza per te e continuerò ad amarti ed attenderti fintanto che gli Angeli santi ti ricondurranno a me nella santa Dimora".
Nel suo cuore rivedo la piccola casa di Nazareth. Il mio caro Giuseppe che non dimenticò mai, quando mi teneva fra le braccia, che sotto quella tenera carne di bimbo palpitava l'essenza del Dio dei suoi Padri. L'espressione si riferisce al verbo incarnato. Adorò in me il Dio creato e celato, fu il primo adoratore dell'Eucarestia. Guardò e custodì mia madre come un tempio santo, lasciandosi inebriare dal suo profumo verginale e consacrante.
I primi tempi
Mi rivedo adulto a trent'anni, quando per l'ultima volta lasciai quella casa che, come il seno di mia madre, mi aveva custodito, per andare incontro agli uomini.
In un solo attimo mi si ripresentano tutte le tappe degli ultimi tre anni della mia vita. L'incontro con Giovanni il Battista... il suo cuore sincero, la sua umiltà profonda mi fecero un gran bene dopo il distacco dalla casa di Nazareth.
I quaranta giorni nel deserto della valle del Giordano in una lunga estasi all'ascolto intimo e divino del progetto del Padre per la rappacificazione del suo amore con il cuore degli uomini. E poi l'incontro con i primi due apostoli: Giovanni ed Andrea, che con semplicità credettero che ero il Messia. E la faccia corrucciata di Pietro che non seppe resistere suo malgrado al mio sguardo e mi seguì. E tutti gli altri.
Rividi il pozzo di Giacobbe sul monte Garizim, dove incontrai un'umile peccatrice samaritana, che pur non comprendendo il mio discorso lo accolse e cambiò vita, solo perchè le diedi fiducia, chiamandola col titolo onorifico di donna, pieno di stima ed affetto riverente.
Mi tornano alla mente tutti i miracoli che ho fatto e tutti i miracolati ai quali ho ridato vita e salute pur sapendo che oggi li avrei rivisti nel vigore delle loro forze ai piedi di questo monte a gridare "Crocifiggilo".
E Maria, la prostituta che entra a casa di Simone confondendosi con i servi per cospargere i miei piedi con prezioso profumo misto alle sue calde lacrime e la mia gioia nell'amministrarle il perdono: "Donna ti sono perdonati i tuoi peccati, va' in pace''.
E gli Scribi e i Farisei, sempre pronti lì a volermi far fuori per non scomodarsi a rivedere il proprio interiore. Li rivedo adesso in mezzo a questa enorme folla che compiaciuta si gode uno spettacolo gratuito in questo giorno, grazie proprio alla pervicacia di quei governatori e conservatori della legge di Mosè, legge interpretata e non amata.
Rivedo Pietro, la sua fede, il suo "ascoltare" i miei discorsi senza tanti ragionamenti. Mi aveva seguito perchè gli ero simpatico e mi voleva bene con l'affetto di un padre. Per me aveva lasciato moglie e figlia, con grande dolore, ma senza mai pentirsi. Mi amava più di ogni cosa al mondo, più di se stesso. Fu lui che con grande impeto mi gridò: "Sei tu il Messia, il figlio del Dio vivente". Verità rivelatagli, per il suo cuore libero e sincero, dal Padre mio. E fu in quel momento, che con profonda riconoscenza sentii che potevo fidarmi di lui, gli diedi il potere di sciogliere e di legare qualsiasi cosa in terra confermandogli che così sarebbe stato anche nei cieli, insomma gli diedi le chiavi del Regno.
Esattamente otto giorno dopo aver annunciato di essere il Messia, invitai Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor. Arrivammo lì molto stanchi verso sera. Il sole radente illuminava l'orizzonte. Sentii un gran bisogno di allontanarmi da loro per unirmi intimamente al Padre mio, sotto la volta di un cielo intessuto di stelle e volli dare loro un segno della beatitudine Trinitaria. Con un gran bagliore, meglio che se fosse stato mezzogiorno, il mio corpo apparve loro condensato di una luce vivissima, riflessa dalla presenza del Padre mio. Con me erano Mosè ed Elia, rappresentanti della legge e della profezia. E Pietro, sempre lui così irruento e spontaneo, mi fece la proposta di voler fare tre tende!
E poi la festa dei Tabernacoli, quella che ricordava la dimora degli antichi Ebrei sotto le tende nel deserto. Ero lì anch'io ed era l'anno ventinove. Seduto insieme con i miei apostoli assistevo alla grandiosa fiaccolata che concludeva gli otto giorni di celeIrazioni. Ammiravo le danze che facevano gareggiando nel saltellare il più a lungo possibile con in mano la fiaccola accesa. Ero affascinato da quella allegria popolare e guardando le grandi lampade appese agli altissimi candelabri pensavo, e confidai il mio pensiero agli Apostoli: "Io sono la vera luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà sempre la luce della vita eterna".
Ad un tratto si sentì un gran chiasso, alcuni Farisei trascinavano una donna che avevano sorpresa mentre giaceva con un uomo che non era suo marito. Volevano lapidarla. Ma ciò che più mi fece male fu il ragionamento dei Farisei. Non erano lì per osservare con zelo la legge, come poteva apparire, ma l'avevano portata apposta per mettere me in difficoltà. Loro facevano presa sul fatto che io avevo predicato l'amore ed il perdono cercando di spiegare alla gente che il Padre mio mi aveva mandato solo per dare speranza ed amore... "Amatevi a vicenda, perdonate settanta volte sette, perché il Padre ha questi sentimenti nei vostri confronti e voi dovete averli nei confronti degli altri".
Loro davano per scontato che io avrei perdonato e amato quella donna e quindi avrebbero potuto condannarmi a morte per non aver osservato la legge di Mosè. D'altronde se anch'io fossi stato dalla loro parte mi avrebbero presentato al popolo come un bugiardo che dopo aver predicato l'amore ed il perdono, presente l'occasione di praticarlo, mi tiravo indietro per paura, comportandomi diversamente da come avevo predicato. Tutto questo lessi nei loro cuori e nelle loro menti, mentre seduto per terra col dito tracciavo dei segni nella sabbia. Insistevano nel chiedermi un parere e così al di là di ogni legge deliberai che chi non avesse peccato poteva cominciare a tirare la prima pietra.
Con questo mio dire desiderai rendere chiaro che nessun uomo può appellarsi a nessuna legge per giudicare un altro uomo, poichè ci sono peccati che possono essere scoperti, come questo, ma ci sono molti altri peccati avvolti dalle tenebre della furbizia che l'uomo riesce perfettamente a nascondere. Se ne andarono lasciandomi quella donna raggomitolata per terra, piena di paura e stupore. In quel momento mi alzai e fui pienamente felice di poterle dare una mano rassicurante e con tutto l'affetto del cuore le dissi: "Donna va' in pace. E d'ora in poi non peccare più". Ella mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e di gratitudine e nel suo sguardo lessi: "Grazie, maestro buono, il tuo amore mi ha guarita".
La Parola: Verità e Misericordia
Il mio coraggio nel testimoniare la verità mi attirò molte simpatie per cui molti chiesero di diventare miei discepoli. Ne scelsi settantadue e li mandai come i miei dodici a predicare.
Solo pochi mesi e la mia vita terrena si sarebbe conclusa. Così in quel tempo che mi rimaneva non parlai altro che dell'amore. Volevo arrivare a far vibrare il cuore degli uomini e di tutti gli uomini, anche di quelli che pensavano di essere vittime indiscutibili dei propri vizi e così raccontai la parabola del Figliol Prodigo. Parlavo spesso in parabole, parabole dell'amore. Era una pedagogia adatta a quegli uomini semplici perché imparassero a mente i miei insegnamenti. Un padre, due figli con caratteri diversi. L'uno attratto dai piaceri della vita, l'altro ligio al dovere e per questo sicuro di dovere ricevere la lode dal padre e deluso perché i fatti si svolsero diversamente.
"Prendo tutto ciò che mi spetta", disse il primo al padre, "voglio godermi la vita, comprarmi tutti i piaceri che il mondo mi offre" .
Il padre rispetta la libertà del figlio, gli concede il suo e lascia col cuore triste che varchi la porta di casa, chissà forse per non rivederlo più. L'amore lascia sempre libero l'amato di amare oppure no, questa è la radice dell'amore stesso. Ma quel figlio, fatta l'esperienza della propria fragilità, si ritroverà solo ed affamato e dopo aver sperperato tutto, sente e comprende che l'amore di suo padre, rimasto immutato nell'infinita Misericordia, lo attende sempre. E così và e trova il padre suo ad attenderlo, senza rinfacciargli nulla, felice solo di poterlo riabbracciare.
Così scorrono nella mente mia le immagini degli ultimi giorni della mia vita terrena, mentre il sangue gronda dalle mie ferite ed i dolori mi penetrano le ossa da non poterne più. Mi accorgo che ricordare mi fa bene, perché lo strazio delle mie carni trova in questa memoria una risposta.
Ho amato tutti gli uomini miei fratelli e voglio dimostrare loro che continuo ad amarli e li amerò sempre e darò tutto me stesso poiche di più non posso.
A Gerusalemme
Ed ecco riprendo a ricordare il mio ingresso trionfale nella Città Santa.
Montai su un asinello a circa un chilometro dal tempio, operando guarigioni tra le grida gioiose dei fanciulli. La folla non riuscì più a contenere l'entusiasmo; pochi giorni prima avevo risuscitato Lazzaro e questo era stato per loro il miracolo più strepitoso, quindi gettarono i loro mantelli sotto i piedi della cavalcatura e tagliati rami d'ulivo, li agitavano gridando: "Evviva, evviva, osanna al Figlio di Davide"!
Passato il torrente Cedron, alzai lo sguardo verso il tempio candido di marmi e sfavillante di ori ai primi raggi del sole. I miei occhi si riempirono di lacrime; pensai che di quel tempio così maestoso non sarebbe rimasta pietra su pietra che non fosse distrutta. Gerusalemme sarebbe stata rasa al suolo e dei suoi abitanti chi ucciso e chi condotto in schiavitù. Entrai, accompagnato dal sempre crescente entusiasmo della folla, nell'atrio del tempio e mi vennero incontro alcuni Greci e con l'aiuto di Filippo che conosceva il greco seppi che volevano conversare con me. Parlai in perifrasi anche con loro. Raccontai che se il granello di frumento caduto in terra non muore, non porta frutto; come a dire: "Proprio quando mi uccideranno comincerò a vivere nei vostri cuori". E proprio il Padre mio mi rese testimonianza, come durante il battesimo e sul Monte Tabor: si udì un rumore come di tuono e e una voce che scandiva queste parole: "Ho glorificato il tuo nome".
Ma nè i miei interlocutori, nè il popolo compresero. Così mentre loro continuavano ad inneggiare io ridiscesi verso il torrente Cedron e, tra i sentieri dell'Orto degli Ulivi, mi diressi a Betania ove andai a trovare il mio amico Lazzaro e passai la notte.
Verso la Pasqua
Il dì successivo mi alzai di buon mattino e mi recai regolarmente nel tempio a predicare. Era il lunedì tre aprile dell'anno trenta. I Farisei si erano nel frattempo organizzati escogitando ancora una volta di rendermi ridicolo agli occhi del popolo.
Mi sottoposero dunque un problema di tasse: "E giusto o no pagarle?"
Il tranello era ben progettato, c'era Cesare di mezzo e quindi se avessi detto "si" avrei avuto il popolo contro che di fronte alle tasse versate ad un governatore tiranno e straniero pensava fosse meglio non pagare; se avessi detto "no" a quel punto sarebbero intervenute le guardie e mi avrebbero eliminato per oltraggio al grande Cesare ... Ipocriti! Ciechi!
Mi feci portare una moneta del tributo con 1'effige di Cesare e spiegai loro che come c'è un dovere da compiere in una società civile al quale non si può e non ci si deve sottrarre, così c'è un dovere morale impresso nella coscienza di ogni uomo al quale si deve soddisfare. Ma loro non la finirono più con le domande.
L'indomani, martedì quattro aprile, mi sottoposero il problema della risurrezione nel caso di una donna che nell'aldilà si ritrova con sette mariti. A quel punto non ne potei più: "Ipocriti, razza di vipere, i risorti saranno incorrutibili ed immortali, non avranno l'uso fisiologico della sessualità, la loro vita materiale scomparirà con le loro ceneri. Saranno uno con me nel Padre, purificati dall'amore sostanziale dello Spirito Santo".
Se ne andarono scuotendo il capo con l'aria di chi sa di ritornare alla carica. Fui preso da una violenta reazione contro la loro ipocrisia e gli gridai contro: "Guai a voi, perchè chiudete il Regno dei Cieli in faccia agli uomini. Non solo voi non vi entrate, ma fate di tutto perchè gli altri non vi entrino. Ipocriti ciechi che pretendete di fare agli altri da guida! Serpenti, razza di vipere, sepolcri imbiancati! Non illudetevi di poter sfuggire al fuoco della Geenna". Dopo questo sfogo mi sentii sfinito e mi rifugiai all'interno del tempio.
Il mio animo si acquietò quando vidi una vecchietta mettere nella cassetta dell'elemosine pochi spiccioli. Mi rivolsi agli Apostoli facendo loro notare quanto sia gradita l'offerta presa dal proprio necessario, molto di più di quella scrosciante che i ricconi fanno cadere dall'alto.
Il tradimento
Ma proprio a questo ricordo il mio pensiero va a Giuda.
Poveretto, la mia sfuriata gli aveva dimostrato che non possedevo alcun senso politico e si sentì deluso, lui che da me si aspettava la testimonianza di un maestro sapiente di questo mondo. Crollarono le sue ultime illusioni, così prese la decisione di aiutare i Farisei a mettermi a tacere. Ormai non gli interessavo più. Per lui ero solo un pazzo, un esaltato, e nient'altro. Così quella stessa sera mentre mi avviavo con gli altri apostoli verso l'Orto degli Ulivi, Giuda rimase in città per prendere i primi contatti con i capi dei Sacerdoti, stabilendo l'incontro per l'indomani sera. Quanta tristezza nel mio cuore! Giunti che fummo nell'Orto mi sedetti per terra e poggiando la schiena in un albero di ulivo invitai gli apostoli ad ascoltarmi. "Mancano due giorni alla mia crocifissione", spiegai, "e sarà proprio a Pasqua".
Ma loro rimuginavano tutto ciò che era accaduto in quegli ultimi giorni ed erano confusi, quasi non mi ascoltavano. Dopo l'ingresso trionfale a Gerusalemme, pensavano che quel popolo mi amava, mi aveva accettato come Messia e lì, fors'anche per un rifiuto dettato dal grande affetto che avevano per me, fermavano il loro pensiero. Preferii non insistere e li lasciai con le loro convinzioni, non me la sentivo di continuare a spiegare cose che non avrebbero mai compreso, tanto li avrebbero vissuti da lì a poco questi giorni, insieme a me e non era il caso di scoraggiarli più di quanto non lo fossero già. Ci appisolammo.
L' indomani mercoledì cinque aprile si tenne un ulteriore consiglio in casa di Caifa e si ribadì che bisognava catturarmi con inganno per evitare una sommossa nel popolo.
Cercarono subito di rintracciare Giuda il quale fu ammesso a partècipare al loro conciliabolo.
Giuda che nella sua vita era stato abituato a dare un prezzo a tutto, volle darlo anche a me. E subito, prima ancora di impegnarsi definitivamente a consegnarmi nelle loro mani, chiese: "Quanto mi date?". Gli risposero: "Trenta sicli d'argento".
Questo infatti era il prezzo che la legge ebraica stabiliva quale riscatto in caso che uno schiavo fosse ucciso. Giuda accettò: pensava di investire l'intera somma per acquistare un podere. Questa mercede mi fece molto più male del tradimento in sé. Se mi avesse consegnato senza alcuna ricompensa, avrebbe guadagnato probabilmente la stima degli stessi Farisei i quali avrebbero pensato che, deluso dall'opinione ideale che lui si era fatta su di me e non valendo che niente ai suoi occhi, poco contava per lui che fossi ucciso o rimanessi vivo e in ciò, alla richiesta insistente di consegnarmi nelle loro mani, avrebbe potuto aderire come chi, avendo la proposta di disfarsi di ciò che non bisogna, se ne disfà volentieri.
Ma la degradazione più grande Giuda l'ebbe quando vendette non me, ma il suo ideale deluso per trenta sicli d'argento. Riflettei molto su questo e pensai che il cuore dell'uomo chiuso alla grazia del suo Dio, non saprà far altro che vendere, comprare, perire. Lo vidi tornare a sedere in mezzo agli altri apostoli. Rimase molto male quando sentì che avevo dato a Pietro e Giovanni il compito di organizzare la cena per la Pasqua, perché a lui urgeva sapere dove saremmo andati.
Così mi rivolsi ai due apostoli e parlai in modo molto enigmatico per far comprendere a Giuda che ero al corrente di suoi piani, per invitarlo a riflettere, ma non volle, pensando forse che ormai era troppo tardi per tornare indietro, dimostrando così di non avere fiducia nel mio amore, nel mio perdono.
L'ultima cena
La cena pasquale si consumò al primo piano vicino la casa di Caifa. Era la sera del giovedì sei aprile e seguìto dai miei apostoli mi recai nel luogo stabilito. Giuda assunse una espressione molto preoccupata vedendoci incamminare proprio verso la casa di Caifa, sembrava infatti che io lo conducessi a compiere il suo misfatto quanto prima possible. Si rassicurò quando, appena seduto a tavola dissi sorridendo: "Ho desiderato tanto mangiare questa Pasqua con voi, sapete, questa è l'ultima volta".
Il clima, almeno apparentemente, era abbastanza sereno, favorito anche dalle carni fumanti, dalle ricche posate, dai vini pregiati. Gli apostoli non raccolsero ancora una volta il senso delle mie parole, loro pensavano che fosse terminato il periodo in cui avevo voluto vivere nascosto e che subentrava un'era nuova, l'era in cui avrei rivelato con potenza di essere il Messia, e così avrebbero finalmente potuto dimostrare a tutti che loro erano stati quei fortunati che l'avevano incontrato per primo. Per questo cominciarono a discutere sulle cariche che dovevano dividersi. Interruppi il loro dire e dissi: "Colui che serve è il maggiore tra di voi", mi cinsi al fianco un' asciugamano e cominciai a lavar loro i piedi.
Non appena gli fui innanzi, Pietro si scostò con veemenza dicendomi che mai si sarebbe sottoposto a questo per la grande stima che aveva di me. Ma quando mi sentì dire che non avrebbe avuto parte con me se non mi avesse lasciato fare questo servizio, l'impetuoso Pietro quasi mi gridò: "Allora non solo i piedi, ma anche le mani ed il capo" .
Tenero dolce Pietro, dal viso scavato dalle lunghe rughe annerite da quel sole bruciante che lo attendeva ogni giorno sul lago, e dal cuore di bimbo che non fece altro che sognare per tutta la vita una buona pesca quotidiana per un sicuro pezzo di pane.
Lo guardai e gli dissi: "Chi ha fatto il bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi perché e pulito. E voi tutti siete puliti, tranne uno"
Giuda abbassò lo sguardo, era sgomento. E fu sempre Pietro che con foga mi chiese: "Sono forse io, Maestro?"
Lo rassicurai con lo sguardo e osservai uno per uno tutti gli altri Apostoli, li vidi interdetti, spauriti, non sapevano capacitarsi per quello che avevo detto: "Uno di voi mi tradirà" .
Intanto Giuda fors'anche per rompere quell'atmosfera gelida che si era creata e che gli pesava sul capo come una candanna, mi si avvicinò e mi chiese con atteggiamento altezzoso: "Maestro, sono forse io?"
Gli risposi a bassa voce, per non farmi sentire dagli altri: "Tu l'hai detto".
Dopo ciò indietreggò è tornò a sedersi al suo posto.
Sono circa le due del pomeriggio. Devo puntare i piedi sui chiodi e scostare le spalle dal patibolo per prender un pò di respiro; le ferite causate dal flagello hanno aperte le mie carni fino all'osso e il sangue ed il sudore le hanno richiuse malamente, per questo ogni movimento è uno strazio.
Il sole picchia forte e arroventa il legno, ma più ancora i chiodi. Il rumore della folla e ciò che sento gridare mi dilaniano più in profondità.
Loro gridano: "A morte, a morte", ed il mio cuore a loro: "Muore il mio corpo, ma non il mio amore; vi amo e vi amerò per sempre! "
Con lo sguardo, per quello che ormai possono permettermi i grumi di sangue che si sono formati attorno agli occhi a causa della corona di spine, intravedo Giovanni, l'apostolo che si era donato a me agli albori dei suoi anni, e me lo rivedo così, quando posando il capo sul mio petto, mi chiese: "Signore chi è colui che ti tradirà?". "È quello al quale darò un pezzetto di pane intinto", avevo risposto.
Ecco, la mia mente ora torna in quella stanza con i miei dodici. E mentre tutte le ferite del mio corpo pulsano con dolore immane, il mio cuore si dilata all'infinito per essermi fatto Eucarestia.
Questo è un momento d'infinito amore. "Prendete, questo è il mio corpo", dissi loro, spezzando il pane. E poi aggiunsi, porgendo il calice: "Questo è il mio sangue, che sta per essere versato. Ripetete questo gesto in memoria di me".
Ecco, avevo istituito il Sacramento che mi avrebbe reso eternamente presente in mezzo a loro. "Amici, consumatemi in questo cibo prezioso, insieme, da uomini uniti dalla fede e dall'amore e non temete perché io sono la vostra forza. Ma prima di accostarvi a tale mensa abbiate sempre il cuore mondo, altrimenti fareste come Giuda, al quale diedi un pezzetto di pane intinto nel mio piatto e glielo misi sulla bocca dicendogli: "Quello che devi fare fallo presto" .
Egli infatti non disdegnò di prenderlo, ma subito dopo andò via, scomparendo nel buio della notte.
Appena uscì, la cena riprese in un'atmosfera di serenità. Non seppero spiegarlo neanche loro perchè, ma tutti si sentirono il cuore libero e leggero, desiderosi solo di stringersi a me.
Li guardai con grande affetto e mi venne così spontaneo chiamàrli per la prima volta “figlioli”, li sentivo parte integrante di me, anzi li sentivo dentro di me, per questo mi donai a loro nell'unica forma in cui potevo donarmi tutto, con il mio corpo ed il mio sangue, la mia anima, la mia divinità, tutto e per sempre.
Così ripresi a parlare: "Figlioli, vedete ... ancora per poco sarò con voi, ma prima di tornare al Padre desidero dirvi che dovete amarvi gli uni gli altri, come io vi ho amati. Vedete come è bello sentirsi in consonanza con tutti i fratelli? È solo questo che desidero testimoniate, perchè solo da questo crederanno che siete stati con me e che io vi ho rivelato l'amore; lo stesso amore per il quale siete stati creati e per il quale tra poco io darò la mia vita. Vedete... nella casa del Padre mio vi sono molti posti, io vado a prepararvi un posto adatto per ciascuno di voi, affinché possiate un giorno venire anche voi dove sono io".
Tommaso che era il più razionale degli apostoli mi interruppe dicendomi: "Signore, ma se noi non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via!" Gli risposi: "Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me conoscerete anche il Padre; anzi vi dico che fin da ora lo conoscete e lo avete visto".
E Filippo, dimostrando di avere capito meno degli altri, mi chiese: "Signore, mostraci il Padre e ci basta"
"Oh, Filippo, Filippo come puoi dire: - Mostraci il Padre? -, Io sono nel Padre e il Padre è in me, è lui che sta compiendo in me l'opera di redenzione, credimi, il Padre ed io siamo una cosa sola".
Detto questo sentii una grande nostalgia del Padre. Le parole sgorgavano così teneramente dal profondo del mio cuore, che gli apostoli, percependo il mio sentimento, esitavano ad interrompermi. Così spontaneamente pregai rivolgendomi direttamente a Lui, al Padre mio, dicendogli: "Padre santo, quando io ero con loro li custodivo, adesso è venuto il momento di tornare a te, perciò ti prego custodiscili tu, perchè abbiano la stessa gloria in me, della mia in te. Ti prego anche per tutti quelli che in me crederanno, affinché tutti siano una sola cosa, come tu Padre sei in me ed io in te".
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